mercoledì 2 aprile 2008

Il Monotribunale

Avevamo visto il bibunale, ma le sorprese non finiscono mai.
L'ultima viene dal monotribunale, non credo che possa definirsi diversamente.
Si tratta di una causa per la declaratoria di nullità di un matrimonio civile.
La citazione viene notificata con invito a comparire davanti ad un Tribunale, la causa viene assegnata ad un giudice che, fino dalla prima udienza, si qualifica Presidente e procede nell'istruzione.
Svolge diverse udienze, sente i testi, fa concludere le parti ed, alla fine, emette una sentenza che reca la seguente intestazione:"Tribunale di ...., nella persona del giudice xyxy";
segue il testo della sentenza ed il dispositivo e, poi la firma: preceduta dal titolo"Il Presidente estensore".
Chissà se la partecipazione del P.M. abbia fatto sorgere qualche dubbio in questo Presidente estensore che la causa, per sua natura, dovesse essere decisa da un collegio.
Chissà se ha dimenticato di scrivere i nomi degli altri due giudici che, nella sua mente, avrebbero dovuto comporre questo collegio.
Certo non sembra che altri, al di fuori del Presidente, abbiano conosciuto di questa causa; almeno nulla risulta né dal verbale nè da altre fonti.
Eppure qualcosa deve essersi mosso nella mente di questo giudice, visto che non si è mai proclamato giudice unico ma "Presidente", tranne che nell'intestazione della sentenza in cui, più modestamentre si dichiara semplicemente "giudice" (anche se firma con il miglior titolo di "presidente").
Ovviamente chi ha avuto la peggio si è premurato di impugnare la sentenza e, come primo motivo, ha invocato la nullità del provvedimento.
Se la Corte accoglierà tale richiesta, si saranno perduti sette anni, tale essendo il tempo occorso perché il "Presidente estensore" facesse conoscere il suo pensiero.

Revisione di una decisione per prova ....vecchia.

C'è una Corte d'Appello che ha sospeso l'esecuzione di una sentenza penale definitiva, pronunciata nel 2006, per effetto di una "prova nuova" acquisita nel 2005.
L'istante per revisione, condannato in via definitiva nel 2006 per ricettazione di un assegno rubato, invocando l'art. 630, lettera c) c.p.p., sosteneva che nel luglio 2005 la vittima del furto aveva dichiarato ad un commissariato di P.S. che in realtà quel suo assegno non gli sarebbe stato rubato, ma gli sarebbe stato truffato.
Sulla base di questa sola dichiarazione chiedeva, in via cautelare, la sospensione dell'esecuzione della pena e la Corte d'Appello, pur riconoscendo che la dichiarazione era del 2005, tuttavia sospendeva l'esecuzione provocandone la scarcerazione, se non vi fossero altri titoli di detenzione, nonostante che la prova (ammesso che fosse tale e che comunque non poteva avere effetto sul reato di ricettazione per il quale era stato condannato, ma solo sul reato presupposto che avrebbe potuto mutare da furto a truffa, ma senza sostanziali conseguenze sulla responsabilità) era conoscibile e conosciuta dallo stesso imputato prima che venisse pronunciata la sentenza del 2006 che lo aveva condannato.
E tutto questo nonostante che il P.G., nel suo parere, avesse spiegato diffusamente che la prova non era tale ed era "vecchia" e conseguentemente che la richiesta di revisione dovesse essere dichiarata inammissibile.