lunedì 28 gennaio 2008

Attenti al barista!

Questa volta la sentenza è proprio della Suprema Corte di Cassazione.
Il caso è quello di un tizio, il quale, avendo sete, entra in un bar e chiede un bicchiere di acqua minerale.
Il barista prende dal bancone una bottiglia con l'etichetta di una notissima acqua minerale e ne riempie il bicchiere, ma, al primo sorso, il cliente si accorge che qualcosa in quell'acqua non va e, da immediate verifiche, si scopre che il liquido versato era detersivo per lavastoviglie, qualificato pacificamente in sentenza come tossico e nocivo.
Contestato al barista il reato di commercio di sostanze alimetari contraffatte o adulterate, nell'ipotesi colposa prevista dall'art. 452 C.P. e dopo varie vicende processuali, finalmente il caso approda in Cassazione, dove viene stabilito che né il reato originariamente contestato né altre ipotesi di adulterazione o contraffazione di merci sussistono, con la motivazione che segue:
"Nella condotta del gestore di un bar, che abbia somministrato per errore a un cliente, che aveva chiesto un bicchiere di acqua minerale, del liquido per lavastoviglie, tossico e nocivo, contenuto in una bottiglia recante all'esterno l'etichetta di una nota acqua minerale e posta sul bancone di mescita, non è configurabile alcuna delle ipotesi delittuose previste dagli artt. 439,440,441,442,444 cod. pen. - delitti di comune pericolo mediante frode -. Tali fattispecie criminose si riferiscono invero ad un'attività di avvelenamento, adulterazione, contraffazione e messa in commercio di sostanze alimentari o di cose destinate al commercio, in modo pericoloso alla salute pubblica, ma non già all'ipotesi di somministrazione di una sostanza, pur se nociva per la salute umana, ma non destinata all'alimentazione e, senza alcuna opera di avvelenamento, adulterazione o contraffazione, confusa per mero errore di fatto con una sostanza alimentare".
Che è come dire: se ti cade qualche goccia di liquido per lavastoviglie nell'acqua minerale. allora sei responsabile per colpa di adulterazione di sostanze alimentari; ma se, invece, servi liquido per lavastoviglie puro, non commetti nessuno dei reati sopra indicati.
Devi solo sperare che il cliente non muoia, perché allora sarebbe omicidio colposo.

giovedì 17 gennaio 2008

Coerenza politica.

Dal discorso del Ministro della Giustizia Mastella, non letto alla Camera per le note vicende, ma pubblicato sul sito del Ministero del quale era fino ad ieri titolare, traggo un piccolo brano che, dopo il suo discorso alternativo, quello in cui annunciava le dimissioni, spicca di luce particolare:
"è assolutamente condivisibile che i detentori di responsabilità politiche non debbano sottrarsi ad un effettivo controllo di legalità del loro operato".
Ogni commento è superfluo.

lunedì 7 gennaio 2008

Prostata salvifica

Tizio deve rispondere del reato previsto dall'art. 609 quinquis p.c. perché mostrava il proprio pene ad una bambina di quattro anni al fine di farla assistere a tale esibizione.
Il fatto avveniva al centro di una popolosa cittadina, durante l'ora di punta del tardo pomeriggio, in una strada affollata. Il padre della bambina accosta l'auto al marciapiede perché si è ricordato di dover comprare le sigarette. Lascia in auto la moglie, seduta sul sedile posteriore, e la bambina di 4 anni, seduta su quello anteriore, con il finestrino aperto perché fa caldo.
All'improvviso sul marcfiapiede al quale è accostata l'auto, un uomo si sbottona i pantaloni ed esibisce il suo pene davanti al finestrino in cui si trova la piccola. Questa, alla vista, urla spaventata richiamando l'attenzione della madre, che, a sua volta, vedendo il marito ritornare, strilla e racconta l'accaduto.
Il responsabile della edificante scenetta viene identificato e fermato.
Rinviato al giudizio del Tribunale per il reato sopra indicato, si difende dicendo che soffre di prostata ed aveva urgente necessità di mingere.
Il giudice svolge questa edificante motivazione:
"L'uomo, pur trovandosi in pieno centro abitato ed in particolare in una delle più trafficate vie della città, a causa di una patologia alla prostata documentata dalla cartella clinica prodotta, non sarebbe riuscito a trattenersi dalla necessità di urinare." e lo assolve.
Del tutto inutile, per questo giudice, verificare perché poi l'imputato non abbia urinato, ma sia riuscito a scappare per non farsi prendere dal padre della bambina giustamente inferocito e perché, visto che aveva questo bisogno impellente, non abbia rivolto il suo pene verso il muro, preferendo, invece, esibirlo davanti al finestrino dove si trovava la piccolina.

I morti perdonano tutti

Un originale giudice scrive:
"E' risultato che la persona offesa Caio è deceduto, cosicché tale evento può equipararsi ai fini della procedibilità del reato ad una remissione extraprocessuale implicita, non potendosi ascrivere all'imputato la sopravvenuta impossibilità materiale di poter beneficiare o darsi luogo ad estinzione consensuale del reato.
Simile condizione implica altresì accettazione tacita in presenza di carenza di interesse dimostrata dall'imputato alla prosecuzione del processo."
Ignora questo giudice che l'originario testo dsell'art. 156 c.p. prevedeva che "il diritto di remissione si estingue con la morte della persona offesa del reato" e che, solo dopo il 1975, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 151/75 è stato permesso agli eredi, qualora siano tutti consenzienti, una eventuale remissione espressa (mai tacita) della querela proposta dal de cuius.
Insomma la regola, in caso di decesso del querelante è, all'opposto di quanto ritenuto da questo giudice, che, con la morte del querelante, la querela non può essere rimessa, né tacitamente, né espressamente, salvo che tutti gli eredi, d'accordo, decidano di rimetterela, cosa che, nel caso in questione, non è stata neppure ipotizzata dall'originale giudice.

Il giudice falegname

Dovendo giudicare un imprenditore, imputato di lesioni colpose per incidente sul lavoro che aveva provocato ad un dipendente la perdita di un dito a causa dell'assenza di uno spingitoio a corredo di una sega circolare, il giudice motiva il suo dubbio sulla sussistenza del rapporto causale tra l'omissione dell'imprenditore e l'incidente in questa forma:
"E' noto anche ai più sprovveduti degli operai (e al rappresentante dell'ufficio che si diletta in lavori di falegnameria) che il c.d. spingitoio non è altro che un semplice pezzetto di legno con cui si spinge appuhto il legno in lavorazione di ridotte dimensioni.
Tali pezzetti di legno si rinvengono a iosa, come del resto ha rilevato l'infortunato, tra gli scarti delle lavorazioni precedenti, .... pertanto non può non concludersi per l'insussistenza di alcun nesso di causa tra la eventuale non disponibilità di uno spingitoio specificatamente a ciò preposto (che non è dissimile da un ritaglio di legno) e l'avvenuta lesione.".
Il giudice sorvola serenamente sul fatto che, comunque, la lesione (cioè il taglio del dito) c'è stata e non verifica se, per esempio, in quel particolare laboratorio di falegnameria non ci fosse alcuno spingitoio, nè appositamente destinato all'uopo, nè altrimenti utilizzabile da precedenti lavorazioni. E assolve l'imprenditore.

Se l'imputato è africano.

Processo a carico del solito senegalese imputato di avere detenuto per la vendita una grande quantità di opere contraffatte e ritenuto colpevole del reato ascrittogli.
Ecco il ragionamento del giudice quando deve determinare la pena:
"L'aggravante del grande numero di opere poste in vendita e la recidiva vanno dichiarate subvalenti rispetto all'ipotesi lieve per la ricettazione ed alle attenuanti generiche, che si concedono perché l'imputato è africano e l'Africa è povera"

Se il processo è indiziario meglio infliggere solo il minimo della pena.

Si tratta di un processo indiziario a carico di imputati per reati molto gravi, dei quali tutti sono riconosciuti colpevoli.
Quando deve stabilire l'entità della pena da infliggere, ecco la motivazione del giudice:
"La spiccata capacità a delinquere dei condannati, quale emerge dai loro precedenti penali è senz'altro ostativa alla concessione delle attenuanti generiche e solo la natura indiziaria del processo consente la quantificazione della pena nel minimo".
Senza commenti!

La mancanza di querela causa di estinzione del reato

Si tratta di un furto di oggetti lasciati in auto dal proprietario che era sceso senza chiudere la portiera a chiave.
P.M. e Giudice, accertato che il ladro non aveva compiuto alcun atto di violenza sull'auto e che gli oggetti in essa contenuti non possono considerarsi cose esposte alla pubblica fede, correttamente ritenevano il reato contestato da qualificare come furto semplice ai sensi dell'art. 624 c.p., ma, a questo punto, ecco la sorpresa:
"La mancanza di ogni idonea querela in ordine al reato di furto semplice determina, pertanto, conformemente alle conclusioni del medesimo p.m., la declaratoria di n.d.p. in ordine al reato, essendo lo stesso estinto per difetto di querela."
L'idea che senza querela non avrebbe potuto essere mai iniziata l'azione penale per questo reato non ha sfiorato le menti di questi magistrati.

Esuberanza giovanile

Un minorenne deve rispondere dei reati di violenza privata e lesioni perché, tappando la bocca e strattonando un'operatrice scolastica, le impediva di chiamare e raggiungere un professore. L'operatrice vittima della violenza aveva subito anche lesioni personali.
Il GUP collegiale minorile dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputato per immaturità sulla base di questa motivazione:
L'imputato "ha agito in un contesto emotivamente coinvolgente senza rendersi conto dell'antigiuridicità del fatto e non riuscendo, attesa la giovane età, a calibrare la propria forza fisica".
Avviso agli operatori scolastici: attenti ai ragazzoni tutti muscoli; sono immaturi e non sanno calibrare la loro forza fisica!!!

Ogni colpo una tacca.

Secondo questo giudice l'accoltellatore del rivale risponde di tanti reati di lesioni volontarie aggravate per quanti colpi abbia sferrato.
La sentenza riguarda un soggetto imputato originariamente di tentato omicidio del rivale, al quale aveva inferto diverse coltellate.
All'esito delle indagini preliminari, il P.M., sulla base della consulenza medica che aveva ritenuto tutte le ferite superficiali ed in punti non vitali del corpo, riformula l'imputazione in quella di lesioni volontarie aggravate ed accetta la proposta di patteggiamento offerto dall'imputato.
Nella motivazione della sentenza, tuttavia, il giudice ritiene di dovere precisare che la pena concordato non viene determinata per l'unico reato così come contestato, ma che, "benchè non espressamente indicata, deve ritenersi altresì contestata la pluralità delle lesioni, costituenti esse stesse singole ipotesi di reato che dunque vanno riunite nel vincolo della continuazione, essendo evidente l'unicità del disegno criminoso. Pena equa, tenuto conto della diminuzione per il rito prescelto, stimasi quella di anni 1 e mesi 4 di reclusione, pena che deve comunque, al di là del calcolo come proposto dalle parti, ritenersi corretta in relazione ai limiti edittali (p.b. a. 1 m.10 di reclusione + 81 cpv. = a.2 - 444 c.p.p.)"
Pensate se una ferita fosse stata mortale e le altre superficiali, forse avremmo avuto una sentenza di condanna per i due reati di omicidio e lesioni personali uniti dalla continuazione.

Il numero 69 non si addice alle brave ragazze

Sempre più spesso si leggono nelle sentenze redatte da giovani donne giudici calcoli della pena stravaganti, dovuti quasi certamente all'ignoranza assoluta dell'art. 69 C.P. e della pluriennale interpretazione di questa norma da parte della Cassazione.
Cito, a titolo di esempio due sentenze, redatte dalla stessa giudice a distanza di sei anni l'una dall'altra, in cui viene esposto lo stesso ragionamente e commesso lo stesso errore, stabilendo una pena che sostanzialmente potrebbe essere quella giusta, ma che, per la mancanza delle nozioni sul bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti, giunge a conclusioni erronee.
Si tratta di due sentenze entrambe per furto pluriaggravato nelle quali viene affermata la responsabilità dei rispettivi imputati.
La giudice, leggendo l'art. 625 c.p. così ragiona nella prima:
"pena base anni tre di reclusione + multa, diminuita in virtù del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche da ritenere prevalenti sulle contestata aggravanti, ...... mesi otto di reclusione + multa".
Nella seconda: "pena base anni tre di reclusione + multa, diminuita in virtù del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate ahgggravanti, .... sino alla pena di mesi sei di reclusione + multa"
Si tratta, sia nel caso di prevalenza che in quello di equivalenza delle concesse attenuanti generiche, di un evidente errore per eccessiva diminuzione di pena ex art. 62 bis c.p. visto che vuol partire da tre anni di pena base.
Se, invece, la giudice avesse letto l'art. 69 c.p., avrebbe dovuto prima di tutto verificare il bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti e poi, visto che riteneva prevalenti o equivalenti queste ultime, determinare la pena base, nel primo caso, magari in misura di un solo anno, sulla quale operare la riduzione di un terzo (massimo consentito) e giungere così agli otto mesi voluti, e, nel secondo caso,determinarla direttamente in quella di sei mesi.
Sarà che alle brave ragazze l'idea stessa del numero 69 ripugni?

Il dubbio del giudice

Tizio risponde del fatto di avere portato in luogo pubblico, insieme ad altre persone, una sbarra di ferro, con la quale sono state provocate fratture alle gambe di un terzo (non risponde invece di concorso in lesioni volontarie aggravate chissà perché).
Al dibattimento l'aggredito, che aveva in precedenza riconosciuto in fotografia Tizio come uno di quelli che partecipava all'agressione, non lo riconosce con certezza.
In questa situazione il giudice, emettendo una sentenza con motivazione contestuale, per prima cosa dichiara:
"Dall'espletata istruttoria dibattimentale non sono emersi sufficienti elementi di prova in ordine alla sussistenza del reato contestato all'imputato".
Proseguendo nel ragionamento e dato atto del contrasto tra il positivo riconoscimento fotografico e quello negativo al dibattimento, trae le seguenti conclusioni:
"Stante il mancato riconoscimento dell'imputato da parte della persona offesa ..... consegue l'invincibilità del dubbio sulla effettiva partecipazione dell'imputato all'episodio oggetto del processo e la sua conseguente assoluzione ex art. 530 co. 2 c.p.p. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto.
P.Q.M.
Visto l'art. 530 co.2 c.p.p. assolve Tizio dal reato ascrittogli in ribrica perché il fatto non sussiste."
A me pare che il giudice non aveva solo l'invincibile dubbio sulla responsabilità, ma anche quello sulla formula da usare. Insomma, dal dispositivo e dalla prima parte della motivazione pare che il giudice dubitasse anche del'esistenza della spranga di ferro; ma dall'esposizione dei fatti e dalle conclusioni che ne trae alla fine di essa, sembrerebbe invece che volesse ritenere l'imputato estraneo al fatto, che però riteneva essere davvero accaduto ad opera di terzi.

domenica 6 gennaio 2008

La legittima difesa fa sparire anche il fatto.

In questo caso il giudice, trattando un caso di lesioni personali guarite oltre i quaranta giorni, dopo avere accertato che in effetti la parte offesa era uscita malconcia e con varie fratture dalla lite con l'imputato, con articolata motivazione sostiene che l'imputato ha agito in stato di legittima difesa e, dopo avere scritto in motivazione testualmente: "Ritiene il Tribunale che la condotta tenuta dall'imputato sia scriminata dalla sussistenza della causa di giustificazione prevista dall'art. 52 c.p., di cui ricorrono i presupposti", giunge a queste stupefacenti conclusioni:
"Le considerazioni sopra svolte conducono ad una dichiarazione di insussistenza del fatto ascritto all'imputato, con conseguente assoluzione dello stesso.
P.Q.M.
Assolve Tizio dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste.
Giorni 30 per la motivazione ." (anche questo evidentemente era un caso complesso).

Della Suprema Corte ce ne infischiamo.

Nel lontano 2002 prima il P.M. e poi il giudice avevano accettato il patteggiamento proposto da due imputati alle seguenti condizioni: anni due di reclusione ed € 200,00 di multa ciascuno e sospensione della pena per entrambi.
Naturalmente la sentenza era errata perché, dovendosi aggiungere la multa al limite massimo dei due anni di reclusione, allora non poteva concedersi sospensione condizionale.
Infatti, su ricorso del p.g., la Cassazione annulla tale sentenza senza rinvio spiegando che non poteva concedersi la sospensione condizionale per tali motivi e trasmette gli atti di nuovo allo stesso Tribunale per nuovo giudizio.
Nel frattempo gli imputati si erano resi irreperibili, un altro patteggiamento era impossibile, si doveva celebrare un giudizio ordinario. Che scocciatura! Ma i due, PM e giudice, hanno grande fantasia e così decidono che la vecchia proposta di patteggiamento deve rimanere ferma e valida ed, anzi deve essere accolta così come originariamente formulata.
E alla Cassazione così il giudice risponde:
"Rilevato che le ragioni che hanno determinato l'annullamento senza rinvio della sentenza emessa da questo giudice (in realtà era un altro giudice dello stesso Tribunale n.d.r.) in data ... 2002 (violazione dell'art. 163 c.p. per superamento del limite di pena previsto dalla norma per concessione del beneficio) sono venute meno a seguito della modifica legislativa introdotta dall'art. 1, l. 2 agosto 2004 n. 205;
che, pertanto, entrambi gli imputati - incensurati - possono beneficiare della sospensione condizionale della pena loro inflitta (anni due di reclusione ed € 200,00 di multa), stante l'innalzamento del summenzionato limite ad anni cinque" ............
P.Q.M.
applica ai due imputati la pena di anni due di reclusione ed € 200,00 di multa ....... (segue calcolo della pena)....
Pena sospesa
Giorni trenta per la motivazione." (Si sa che una sentenza di patteggiamento è abbastanza complessa).
Con un colpo solo questi magistrati (PM e giudice) hanno dimostrato di ignorare quello che aveva scritto la Cassazione; di confondere i limiti del patteggiamento (cosiddetto allargato) con quelli per la sospensione della pena ed, infine, di ignorare che la novella permetteva di sospendere condizionalmente soltanto la pena detentiva nei limiti dei due anni, ma non anche quella pecuniaria, con l'ulteriore conseguenza che, comunque, anche a volere ritenere valida la proposta di patteggiamento a suo tempo formulata, essa non poteva accogliersi perché la legge non permetteva di sospendere tutta la pena patteggiata.
Ma che soddisfazione mandare a quel paese quei rimbambiti della Cassazione che li costringono a rimettere mano ad un vecchio processo eliminato!

I raggiri di Cupido ed i misteri del giudice.

Tizio si ritrova rinviato a giudizio con questo divertente capo di imputazione, frutto della tenacia indagatoria di un solerte P.M.:
"artt.81 cpv. e 640 c.p. per essersi procurato in tempi diversi ed in esdcuzione del medesimo disegno criminoso in ingiusto profitto inducendo Caia a consegnargli assegno bancari dell'importo complessivo di € (una discreta sommetta n.d.r.) con artifizi e raggiri consistiti nel chiederle un prestito promettendole una rapida restituzione, approfittando del loro legame sentimentale e simulando di essere in procinto di assumere un nuovo incarico lavorativo".
Al dibattimento Caia si costituisce parte civile, ammette che al tempo del commesso reato era fidanzata con Tizio, che gli aveva concesso un prestito perché gli voleva bene, ma che poi si era accorta che quello era fidanzato con un'altra.
Il giudice, allora, decide di assolverlo perché il fatto non sussiste con questa motivazione:
"E' forte nel giudicante la consapevolezza che l'unico 'raggiro' ipotizzabile in questo caso sia stato quello inesorabile ed antico architettato da Cupido.
Tale raggiro non ha rilevanza per il reato in esame.
Si impone allora l'assoluzione per insussistenza del fatto, seppure ai sensi del II comma dell'art. 530 C.P.P."
Non è dato di sapere da quale dubbio sia scaturita quell'applicazione del secondo comma dell'art. 530 c.p.p.. Se qualcuno è in grado di formulare qualche ipotesi alternativa può farsi avanti.
Peraltro il giudice ignora sovranamente il disposto dell'art. 542 c.p.p. che, in un caso come questo di reato procedibile a querela ed in presenza di assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste, impone la condanna del querelante al pagamento delle spese processuali e di quelle sopportate dall'imputato, limitandosi a questo semplice dispositivo:
"P.Q.M.
visto l'art. 530 comma II C.P.P. assolve Tizio perché il fatto non sussiste.".

La matematica è un'opinione

Tizio deve rispondere di alcune contravvenzioni ed il giudice lo ritiene responsabile di tutte quelle che gli sono state contestate. Poiché l'imputato ha scelto il rito abbreviato, gli spetta la riduzione di un terzo della pena determinata in continuazione tra le varie contravvenzioni.
Ecco il calcolo del giudice:
"Si stima equo determinare la pena, riunite le diverse fattiscpecie sotto il vincolo della continuazione e riconosciuta la diminuente per il rito, in mesi tre di arresto (P.B. mesi due di arresto; aumentata ex art.81 c.p. a mesi tre di arresto; ridotta come sopra ex art. 438 e ss. c.p.p.).
P.Q.M.
Dichiara Tizio colpevole dei reati ascrittigli e, per lp'effetto, riconosciuta la continuazione tra le diverse ipotesi ed applicata la diminuente per il rito scelto, lo condanna alla pena di mesi tre (3 - 1/3 fa 3 per questo giudice n.d.r.) di arresto."
Il calcolo della pena era tanto complicato che il giudice ha avuto bisogno di ricorrere a quella norma che, per i processi più complessi, permette al giudice di depositare la motivazione entro novanta giorni.

Idee confuse.

Tizio, accusato di avere dichiarato con l'autocertificazione che la moglie nell'ultimo anno non aveva lavorato, si difende dicendo che in effetti la moglie in quell'anno era rimasta disoccupata.
Il giudice del dibattimento dà atto che effettivamente la dichiarazione non è falsa perché non risulta che moglie abbia mai svolto attività lavorativa nell'anno in questione e, dopo la discussione orale scrive la sentenza così motivata:
"Il dubbio circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato giustifica la pronuncia ai sensi dell'art. 425 - comma 3^ - c.p.p.
Visto l'art. 425 - comma 3^ - c.p.p.
P.Q.M.
dichiara non luogo a procedere nei confronti di Tizio perché il fatto non sussiste.".

mercoledì 2 gennaio 2008

Il Bibunale

Si, succede anche questo: un Tribunale che, a causa delle ferie di un giudice, non riesce a trovare il suo terzo componente ed apre l'udienza composto soltanto da un Presidente ed un giudice.
In questa strana formazione chiama un processo, molto complesso, con imputazioni gravissime, anche di carattere associativo, accerta che nessuno dei difensori è presente (anche perché la cancelleria, in modo informale e per telefono, aveva già preannunciato che l'udienza sarebbe stata rinviata), nomina per tutti gli imputati un difensore di ufficio (peraltro iscritto a foro di un altro distretto), e lo nomina sostituto processuale di tutti i difensori, dimenticando che in molti casi ci sono contrasti evidenti tra le tesi difensive di alcuni imputati rispetto a quelle di altri.
Ma non basta: questo strano ircocervo dichiara l'assenza (non la contumacia) degli imputati assenti e poi rinvia ad altra data il prosieguo del dibattimento, avvertendo che non deve essere dato avviso né agli imputati assenti né ai difensori (anche essi assenti), visto che, per ordine del "Bibunale" essi devono essere considerati tutti presenti.
Naturalmente. quando alla successiva udienza (questa volta davanti ad un Tribunale composto di tre giudici), alcuni dei difensori presenti ritengono che l'assenza di molti imputati e difensori dipende dalla nullità della precedente udienza, il Tribunale difende la sua decisione e dichiara che è tutto regolare.
Il resto (cioè la decisione della Corte d'Appello) alla prossima puntata.