mercoledì 27 febbraio 2008

Pena senza criterio.

E' incredibile, ma penso sia vero, che diversi giudici non sappiano quali siano i limiti edittali per il reato di omicidio. Bisognerebbe invitarli a rileggere l'art. 23 c.p., norma generale che stabilisce che "la pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni", insieme all'art. 575 stesso codice, che stabilisce per l'omicidio "la reclusione non inferiore ad anni ventuno".
Quindi, in assenza di aggravanti che determinino l'ergastolo (che è una pena di diverso genere), il reato di omicidio è punito con pena da ventuno a ventiquattro anni di reclusione.
Lo sanno anche gli studenti del terzo anno di università, ma lo dimenticano giudici anche con oltre venti anni di anzianità.
Eh si, perché solo così può spiegarsi il ragionamento di un giudice che, dovendo determinare a seguito di procedimento con rito abbreviato, la pena per un tale, ritenuto responsabile di omicidio senza aggravanti, espone questo ragionamento.
"All'imputato, in ragione del suo stato di incensurato e del suo comportamento successsivo al delitto, ivi compresa la condotta processuale, improntata ad assoluta collaborazione con gli inquirenti per la ricostruzione dei fatti, vanno riconosciute generiche circostanze attenuanti.
Deve essere concessa, poi, la diminuente di cui all'art. 442 c.p.p. per la scelta del rito abbreviato.
Per cui, avuto riguardo agli elementi tutti di cui all'art. 133 c.p. (e, segnatamente, alla gravità del fatto desunta dalle modalità di realizzazione dello stesso e dalla circostanza che l'imputato ha agito con dolo intenzionale) si stima equo infliggere la pena di quattordici anni di reclusione (pena base ventiquattro anni di reclusione, ridotta ex art. 62 bis c.p., a ventuno anni di reclusione, diminuita ex art. 442 c.p.p., a quattordici anni)."
La gravità del fatto sarebbe desumibile dalle modalità di realizzazione dello stesso, ma se si considera che non sono state ravvisate aggravanti di alcun tipo, è evidente che tali modalità non possono essere se non quelle minime per realizzare l'intento omicidiario, il dolo intenzionale è quello tipico della maggior parte degli omicidi, cioè la chiara volontà di uccidere.
Possono giustificare queste due considerazioni l'applicazione del massimo della pena? Possiamo stare certi che il giudice sapesse che stava infliggendo il massimo edittale della pena, nonostante l'incensuratezza e la piena collaborazione con gli inquirenti, così chiaramente dichiarata?
Mi sembra lecito qualche dubbio! Mi sembra più probabile che a questo giudice sembrasse irrisoria una pena base più vicina al minimo e poco opportuna la massima diminuzione per le concesse attenuanti, che poi avrebbe comportato l'ulteriore riduzione prevista dall'art. 442 C.p.p., con il risultato di una pena finale a suo parere inadeguata.
Ma se questa era la sua idea, la motivazione avrebbe dovuto essere diversa e più puntuale; in mancanza di ciò, come si potrà sostenere in appello una decisione siffatta?
Facile, si arriverà quasi certamente ad una pena finale vicina ai dieci anni e così potrà accusarsi la Corte d'Assise di Appello (ed anche il P.G. di udienza) di lassismo nei confronti dei delinquenti, mentre il bravo giudice sarà considerato un esempio di rigore giudiziario.

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