mercoledì 2 aprile 2008

Il Monotribunale

Avevamo visto il bibunale, ma le sorprese non finiscono mai.
L'ultima viene dal monotribunale, non credo che possa definirsi diversamente.
Si tratta di una causa per la declaratoria di nullità di un matrimonio civile.
La citazione viene notificata con invito a comparire davanti ad un Tribunale, la causa viene assegnata ad un giudice che, fino dalla prima udienza, si qualifica Presidente e procede nell'istruzione.
Svolge diverse udienze, sente i testi, fa concludere le parti ed, alla fine, emette una sentenza che reca la seguente intestazione:"Tribunale di ...., nella persona del giudice xyxy";
segue il testo della sentenza ed il dispositivo e, poi la firma: preceduta dal titolo"Il Presidente estensore".
Chissà se la partecipazione del P.M. abbia fatto sorgere qualche dubbio in questo Presidente estensore che la causa, per sua natura, dovesse essere decisa da un collegio.
Chissà se ha dimenticato di scrivere i nomi degli altri due giudici che, nella sua mente, avrebbero dovuto comporre questo collegio.
Certo non sembra che altri, al di fuori del Presidente, abbiano conosciuto di questa causa; almeno nulla risulta né dal verbale nè da altre fonti.
Eppure qualcosa deve essersi mosso nella mente di questo giudice, visto che non si è mai proclamato giudice unico ma "Presidente", tranne che nell'intestazione della sentenza in cui, più modestamentre si dichiara semplicemente "giudice" (anche se firma con il miglior titolo di "presidente").
Ovviamente chi ha avuto la peggio si è premurato di impugnare la sentenza e, come primo motivo, ha invocato la nullità del provvedimento.
Se la Corte accoglierà tale richiesta, si saranno perduti sette anni, tale essendo il tempo occorso perché il "Presidente estensore" facesse conoscere il suo pensiero.

Revisione di una decisione per prova ....vecchia.

C'è una Corte d'Appello che ha sospeso l'esecuzione di una sentenza penale definitiva, pronunciata nel 2006, per effetto di una "prova nuova" acquisita nel 2005.
L'istante per revisione, condannato in via definitiva nel 2006 per ricettazione di un assegno rubato, invocando l'art. 630, lettera c) c.p.p., sosteneva che nel luglio 2005 la vittima del furto aveva dichiarato ad un commissariato di P.S. che in realtà quel suo assegno non gli sarebbe stato rubato, ma gli sarebbe stato truffato.
Sulla base di questa sola dichiarazione chiedeva, in via cautelare, la sospensione dell'esecuzione della pena e la Corte d'Appello, pur riconoscendo che la dichiarazione era del 2005, tuttavia sospendeva l'esecuzione provocandone la scarcerazione, se non vi fossero altri titoli di detenzione, nonostante che la prova (ammesso che fosse tale e che comunque non poteva avere effetto sul reato di ricettazione per il quale era stato condannato, ma solo sul reato presupposto che avrebbe potuto mutare da furto a truffa, ma senza sostanziali conseguenze sulla responsabilità) era conoscibile e conosciuta dallo stesso imputato prima che venisse pronunciata la sentenza del 2006 che lo aveva condannato.
E tutto questo nonostante che il P.G., nel suo parere, avesse spiegato diffusamente che la prova non era tale ed era "vecchia" e conseguentemente che la richiesta di revisione dovesse essere dichiarata inammissibile.

mercoledì 19 marzo 2008

Finché c'è guerra c'è speranza.

Questa potrebbe sembrare una storia singolare, ma vi assicuro che è plurale, nel senso che non è un caso unico, ma è un modello al quale molti avvocati, specialisti in diritto di famiglia, si stanno ispirando.
Mi è venuta in mente leggendo un commento di Anonimo (Avv. Cosimo Saracino che ringrazio e saluto cordialmente), che riteneva che le "cose da pazzi" fossero esclusive dei civilisti.
In realtà questi specialisti del diritto hanno molto da insegnare.
La storia comincia con una normale causa di separazione tra coniugi davanti ad un Tribunale ordinario.
Entrambi dimostrano di essere quasi poveri e vedono riconosciuto il diritto al patrocinio a spese dello Stato. Alla prima udienza il Presidente dà i soliti provvedimenti provvisori sull'affidamento (condiviso) e sull'assegno di mantenimento.
Parte il primo reclamo ex art. 708 c.p.c. e la Corte conferma i provvedimenti presidenziali.
A questo punto la moglie si rivolge al Tribunale per i minorenni contestando il diritto del marito a vedere il figlio, perché è violento ed inadatto al ruolo di padre. Il Tribunale minorile, dopo una breve istruttoria, decide che entrambi i genitori sono inadeguati al ruolo ed affida il figlio minore ai Servizi Sociali, pur lasciandolo collocato nella casa coniugale assegnata alla madre.
Reclamo di entrambi i genitori, con motivazioni diverse, alla Corte minorile per invocare la revoca del decreto e stabilire che, a seconda delle difese, l'uno o l'altro dei genitori fosse l'unico a potersi occupare del minore.
Decreto della Corte d'Appello minorile di revoca dell'impugnato decreto, perché emesso da giudice incompetente per materia, sul presupposto che non sussisteva alcuno dei presupposti previsti dagli artt. 330, 333 c.c. e, quindi, riconoscimento della validità ed attualità delle decisioni del Presidente del Tribunale ordinario (intanto il procedimento è passato al G.I., al quale le parti rivolgono diverse istanze di modifica delle statuizioni presidenziali).
Ma il difensore della madre ricorre nuovamente al Tribunale minorile dicendo che ci sono altri elementi per escludere il padre da alcun rapporto con il figlio perché non si è sottomesso al percorso di recupero della genitorialità prescritto dal Tribunale minorile.
Altro decreto dello stesso Tribunale che, preso atto che il padre non si è presentato agli appuntamenti con il servizio sociale che doveva recuperarlo al ruolo di padre, reitera l'affidamento del minore al servizio sociale, collocandolo nuovamente in casa della madre, e prescrivendo al padre un nuovo percorso di recupero del suo ruolo.
Altro ricorso alla Corte minorile di entrambi i genitori, ciascuno per sostenere che non ci sono i presupposti per l'affidamento ai servizi sociali e rivendicando l'affidamento in via esclusiva del povero figlio.
Nuova decisione della Corte minorile che ribadisce l'incompetenza per materia del Tribunale minorile per carenza dei presupposti ex artt. 330 e 333 c.c. e, quindi, nuova rivitalizzazione degli originari provvedimenti provvisori del Presidente del Tribunale ordinario.
Nel frattempo il Tribunale ordinario, al quale nessuno ha comunicato le decisioni della Corte minorile, all'esito del procedimento di separazione giudiziale, così decide:
Considerato che per le questioni di affidamento del minore non è competente perché si è dichiarato tale il Tribunale per i minorenni, nulla decide su tale punto; ritenuto, tuttavia, che per le questioni relative all'assegno di mantenimento di moglie e figlio conserva la propria competenza, essendo esclusa quella del Tribunale minorile per le questioni economiche riguardanti soggetti regolarmente coniugati, pone a carico del padre un assegno di mantenimento per moglie e figlio.
Ovviamente appello di entrambe le parti, questa volta davanti alla Corte d'Appello ordinaria, con le seguenti posizioni rispettive:
Per la moglie confermarsi l'incompetenza del giudice ordinario ed affermarsi quella del giudice minorile per quanto riguarda l'affidamento, ma, sulla base della precedente decisione della Corte minorile, disporre l'affidamente in via esclusiva alla madre; per il marito, riformarsi la decisione impugnata perché, come già stabilito dalla Corte minorile, è competente anche per l'affido del minore il giudice ordinario e, quindi, affidamento congiunto.
Naturalmente entrambi i coniugi impugnano, con opposte motivazioni, la decisione del Tribunale sul quantum degli assegni.
La decisione della Corte è attesa tra qualche giorno.
Ma, intanto, mi chiedo: questi coniugi, ufficialmente poveri, quanti denari hanno sottratto al bilancio dello Stato per difese reiterate e discutibili e con quale vantaggio per il loro unico figlio?

lunedì 17 marzo 2008

Motivazione...... fantasiosa.2

E' un semplicissimo caso di falso in autocertificazione.
Accertata la responsabilità dell'imputato, ecco la motivazione sulla pena:
"Tenuto conto delle modalità del fatto, ritenute applicabili le attenuanti generiche attesa l'assenza di precedenti penali, si stima equa una condanna dell'imputato alla pena di un anno di reclusione (P.B. un anno e sei mesi recl.; ridotta come sopra ex art. 62 bis c.p.)."
Ed ecco la sorpresa del dispositivo:
"P.Q.M. Visti gli artt. 533, 535 c.p.p., dichiara Tizio colpevole del reato ascrittogli e per l'effetto, riconosciute le attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi tre di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali."
Insomma, l'imputato si sentirà fortunato visto che il giudice lo riteneva meritevole di un anno di galera ed invece lo ha condannato solo a tre mesi, ma a chi legge questo tipo di sentenze, chissà perché, viene uno strano sentimento di mestizia per la cura con la quale vengono redatte.

Motivazione...... fantasiosa.

Si trattava di motivare una semplicissima sentenza per il reato di impiego di extracomunitaria priva di permesso di soggiorno.
Accertata la responsabilità dell'imputato, ecco la motivazione sulla pena:
"Tenuto conto delle modalità del fatto, ritenute non concedibili le attenuanti generiche attesi i precedenti penali anche specifici, si stima equa una condanna dell'imputato alla pena di mesi tre di arresto ed euro 5000 di ammenda (P.B. mesi tre di arresto ed euro 5000 di ammenda, ridotta come sopra ex art. 62 bis c.p.). Sussistono i presupposti per l'applicazione della sospensione condizionale.
P.Q.M. Visti gli artt. 533, 535 c.p.p. dichiara Tizio colpevole del reato ascritto e per l'effetto lo condanna alla pena di mesi tre di arresto ed euro 5000 di ammenda oltre al pagamento delle spese processuali. Motivi riservati in giorni 45."
Insomma voleva o non voleva dare all'imputato le attenuanti generiche?
E se ritiene concedibile la sospensione condizionale (nonostante le modalità del fatto ed i precedenti specifici) perché poi non gliela concede nel dispositivo?
Eppure questo giudice si era preso ben 45 giorni per spiegare il suo pensiero!

Una originale figura giuridica: la falsità ideologica in certificati commessa dal privato.

E' un banalissimo caso di contraffazione di una carta d'identità, operato sostituendo il nome del titolare con un altro nome. E' uno degli esempi di scuola del falso materiale commesso da privati in documenti di identità, punito dagli artt. 477, 482 c.p..
Invece il P.M. si inventa un falso ideologico e contesta il reato p. e p. dagli artt. 479, 482 c.p. perché l'imputato "contraffaceva la C.I. n.---- mediante falsificazione di tutti i dati della medesima, fatta apparire come rilasciata da altro Comune a Tizio".
Ed il giudice non è da meno! Infatti dichiara l'imputato colpevole del "delitto di cui agli artt. 480 e 482 C.P., così dovendosi diversamente qualificare il fatto contestato in rubrica trattandosi di un documento di identità che rientra nelle certificazioni amministrative".
In questo modo P.M. e Giudice, pur in disaccordo sulla natura del documento contraffatto (per il primo atto pubblico e per il secondo certificato amministrativo), danno però entrambi per scontato che esista la figura criminosa del falso idologico commesso da privato, che invece non esiste, salvo che non vi si vogliano comprendere le ipotesi di false attestazioni a pubblico ufficiale (art. 483 c.p.) o di inganno per indurre in errore il pubblico ufficiale (art. 48 c.p.).
In fondo, per evitare un errore marchiano, sarebbe stato sufficiente leggere in un attimo l'art. 482 c.p., da entrambi ritenuto sussistente, per verificare che in esso non viene richiamato né l'art. 479 né l'art. 480 c.p..
Ma forse era troppa fatica!

domenica 9 marzo 2008

Quando si raggiunge la poesia

Si tratta di un banalissimo caso di processo per lesioni volontarie aggravate dal rapporto di parentela.
Alla fine della motivazione, il giudice di pace ritiene provata la responsabilità dell'imputato e valuta con queste parole la posizione della difesa: "la tesi difensiva ... risulta sfornita di elementi probatori e da possibili vicarianti induzioni logiche. In conclusione il fatto è avvenuto e la sanzione deve applicarsi".
Concede, quindi le attenuanti generiche "che compensano l'applicazione delle agggravanti" ed ecco la parte del dispositivo che riguarda la pena:
"lo condanna alla pena di Euro 600,00 (seicento/00) di multa (pena base € 516,00, diminuita ad € 300,00 per le attenuanti e successivamente aumentata ad € 600,00".
Insoma l'aggravante compensava le attenuanti generiche ma era un "anticchia" prevalente (a parte le montagne russe di diminuzioni ed aumenti vertiginosi)

mercoledì 27 febbraio 2008

Pena senza criterio.

E' incredibile, ma penso sia vero, che diversi giudici non sappiano quali siano i limiti edittali per il reato di omicidio. Bisognerebbe invitarli a rileggere l'art. 23 c.p., norma generale che stabilisce che "la pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni", insieme all'art. 575 stesso codice, che stabilisce per l'omicidio "la reclusione non inferiore ad anni ventuno".
Quindi, in assenza di aggravanti che determinino l'ergastolo (che è una pena di diverso genere), il reato di omicidio è punito con pena da ventuno a ventiquattro anni di reclusione.
Lo sanno anche gli studenti del terzo anno di università, ma lo dimenticano giudici anche con oltre venti anni di anzianità.
Eh si, perché solo così può spiegarsi il ragionamento di un giudice che, dovendo determinare a seguito di procedimento con rito abbreviato, la pena per un tale, ritenuto responsabile di omicidio senza aggravanti, espone questo ragionamento.
"All'imputato, in ragione del suo stato di incensurato e del suo comportamento successsivo al delitto, ivi compresa la condotta processuale, improntata ad assoluta collaborazione con gli inquirenti per la ricostruzione dei fatti, vanno riconosciute generiche circostanze attenuanti.
Deve essere concessa, poi, la diminuente di cui all'art. 442 c.p.p. per la scelta del rito abbreviato.
Per cui, avuto riguardo agli elementi tutti di cui all'art. 133 c.p. (e, segnatamente, alla gravità del fatto desunta dalle modalità di realizzazione dello stesso e dalla circostanza che l'imputato ha agito con dolo intenzionale) si stima equo infliggere la pena di quattordici anni di reclusione (pena base ventiquattro anni di reclusione, ridotta ex art. 62 bis c.p., a ventuno anni di reclusione, diminuita ex art. 442 c.p.p., a quattordici anni)."
La gravità del fatto sarebbe desumibile dalle modalità di realizzazione dello stesso, ma se si considera che non sono state ravvisate aggravanti di alcun tipo, è evidente che tali modalità non possono essere se non quelle minime per realizzare l'intento omicidiario, il dolo intenzionale è quello tipico della maggior parte degli omicidi, cioè la chiara volontà di uccidere.
Possono giustificare queste due considerazioni l'applicazione del massimo della pena? Possiamo stare certi che il giudice sapesse che stava infliggendo il massimo edittale della pena, nonostante l'incensuratezza e la piena collaborazione con gli inquirenti, così chiaramente dichiarata?
Mi sembra lecito qualche dubbio! Mi sembra più probabile che a questo giudice sembrasse irrisoria una pena base più vicina al minimo e poco opportuna la massima diminuzione per le concesse attenuanti, che poi avrebbe comportato l'ulteriore riduzione prevista dall'art. 442 C.p.p., con il risultato di una pena finale a suo parere inadeguata.
Ma se questa era la sua idea, la motivazione avrebbe dovuto essere diversa e più puntuale; in mancanza di ciò, come si potrà sostenere in appello una decisione siffatta?
Facile, si arriverà quasi certamente ad una pena finale vicina ai dieci anni e così potrà accusarsi la Corte d'Assise di Appello (ed anche il P.G. di udienza) di lassismo nei confronti dei delinquenti, mentre il bravo giudice sarà considerato un esempio di rigore giudiziario.

sabato 16 febbraio 2008

Il giudice immaginifico

Per motivare una sentenza di condanna, un giudice di chiara fama usa la seguente espressione:
"Va rilevato che la narrazione dei fatti fornita da Tizio (la parte offesa n.d.r.) .... trova sostanziale riscontro nelle oculari, concordi e disinteressate deposizioni testimoniali di Caio (teste n.d.r.).

Quando si dice "occhi parlanti"

venerdì 15 febbraio 2008

Apoteosi dell'assurdo in un capo di imputazione

La storia è banalissima. Una lite tra due fratelli ed il loro vicino di casa. Ad un certo punto i due fratelli mandano in frantumi i vetri dell'auto del vicino e lo minacciano con un forcone imbracciato da uno di loro


A questo punto il vicino, che è un tipo tosto, si arma di chiave inglese, insegue i due fratelli, entra nella loro casa, rompe i vetri della porta principale, sfascia all'interno tre porte, minaccia i fratelli di morte, li insegue brandendo la chiave inglese, ne ferisce uno lievemente e cerca di colpire alla testa l'altro.


Alla fine della sfuriata il vicino esce dalla casa dei fratelli e, con la stessa chiave inglese, fracassa i vetri dell'auto di uno dei due e finalmente si placa.


Ecco come la storiella viene riportata nel capo di imputazione a suo carico:


"a) Del delitto di cui agli artt. 56,575, 577 C.P. per avere, colpendolo ripetutamente con una chiave inglese alla testa ed al corpo, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di ... (il primo dei fratelli n.d.r.), non riuscendo nell'intento per cause indipendente (sic) dalla sua volontà, avendo la vittima parzialmente schivato il colpo.
Con l'aggravante di avere commesso il fatto per futili motivi.

b) Del delitto di cui agli artt. 582 e 585 C.P. per aver, colpendolo con una chiave inglese, cagionato a .... . (il secondo dei fratelli n.d.r.), lesioni personali giudicate guaribili in giorni 5 (cinque).
Con l'agggravante di avere commesso il fatto con arma (ma non per futili motivi n.d.r.)

c) Del delitto di cui all'art. 614 ult. comma C.P. per essersi introdotto nell'abitazione di ... (uno dei fratelli) contro la volontà di quest'ultimo.
Con l'aggravante di avere commesso il fatto con violenza sulle cose consistita nel rompere i vetri della porta principale. (ma anche per questo reato non si ravvisano i futili motivi n.d.r.).
d) Del delitto di cui all'art. 612 II co. C.P. per aver, profferendo le seguenti parole "io vi ammazzo non dovete più vivere adesso vi faccio vedere chi sono io", minacciato un ingiusto danno ai (fratelli n.d.r.).
Con l'aggravante della minaccia grave.
e) Del delitto di cui all'art.635 II co. N. 3 C.P. per aver, rompendo i vetri, danneggiato l'autovettura xxxx di proprietà di ... (uno dei fratelli n.d.r.), regolarmente parcheggiata.
Con l'aggravante di aver commesso il fatto su cosa esposta alla pubblica fede.
f) Del delitto di cui all'art. 635 C.P. per aver danneggiato tre porte all'interno dell'abitazione di ... (uno dei fratelli n.d.r.).
g) Del delitto di cui all'art. 393 C.P. perché, al fine di esercitare il preteso diritto di difendere la propria incolumità personale in quel momento minacciata da (i fratelli) dei quali uno armato di forcone, i quali peraltro, avevano mandato in frantumi i vetri della propria autovettura, potendo ricorrere al Giudice, si faceva arbitrariamente ragione da sè in particolare armandosi di chiave inglese e attuando le condotte descritte nei capi precedenti.".
Con questo incredibile capo di imputazione, l'imputato propone ed ottiene il patteggiamento allargato con l'applicazione della pena di 4 anni di reclusione previa prevalenza della provocazione sulle contestate aggravanti ed il giudice, per non essere da meno del suo P.M., riesce a dimenticare di condannarlo al pagamento delle spese ed alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici.

sabato 9 febbraio 2008

Chi è il truffatore e chi il truffato?

Tizio apre un conto in banca con modesta provvista e subito si fa consegnare un bel blocchetto di assegni.
Consegna subito il blocchetto a Caio, che negozia in pochi giorni tutti gli assegni con falsa firma di Tizio, per importo complessivo di molto superiore alla provvista.
Al rientro del primo assegno in banca, l'istituto di credito avverte Tizio che non ci sono fondi sufficienti per pagare e questi, immediatamente, sporge querela nei confronti di Caio per truffa, appropriazione indebita del blocchetto e falso in assegni. In questo modo ottiene il sequestro di tutti gli assegni in circolazione a sua falsa firma.
Si svolge il processo contro Caio, nel quale Tizio si guarda bene dal costituirsi parte civile, e Caio, pluripregiudicato per reati analoghi, viene condannato a pena abbastanza mite, da unire in continuazione con precedenti condanne (e naturalmente da condonare).
Ma Caio, non contento della fortuna di cui gode, propone appello dicendo candidamente che il giochetto era stato concordato con Tizio per truffare i terzi ai quali sarebbero stati consegnati gli assegni, i quali, con l'opportuna querela dell'apparente truffato, sarebbero stati tutti sequestrati e bloccati per anni.
In conclusione Caio viene assolto perché non vi era stato raggiro nell'ottenere la consegna del blocchetto di assegni; perché non vi era stata alcuna appropriazione indebita, visto che tale consegna era stata concordata proprio per quello scopo e che la falsa firma era proprio lo strumento per ottenere dall'autorità giudiziaria il sequestro degli assegni.
Dei veri truffati ancora non si hanno notizie.
Però il processo al falso truffatore è durato circa sette anni.

sabato 2 febbraio 2008

In galera senza tante spiegazioni.

Un tale viene arrestato per il delitto di ...... All'udienza di convalida dell'arresto viene richeista ed applicata la misura della custodia in carcere.
Il difensore propone istanza di riesame e, davanti al Tribunale del Riesame ecco cosa emerge:
"Pur essendo il provvedimento impugnato inserito nella fase dell'udienza di convalida, non risulta in alcun atto scritto, né all'interno dell'ordinanza coercitiva, né nel verbale di udienza del quale detta ordinanza costituisce parte integrante, la descrizione del fatto contestato, requisito richiesto, a pena di nullità, dal comma 2 lett. b) dell'art. 292 c.p.p.".
ma non basta: "appare altresì totalmente omessa, nell'ordinanza impugnata, ogni motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari, essendosi il giudice a quo limitato a richiamare l'art. 274 c.p.p., senza offrire né la individuazione della natura delle esigenze cautelari (pericolo di fuga, di inquinamento probatorio o di recidiva), né la indicazione delle circostanze di fatto integranti la previsione normativa".
Sulla base di tali considerazioni, giustamente il Tribunale del Riesame rileva che "nella fattispecie in esame si è di fronte ad una reale inesistenza di motivazione, non suscettibile di integrazione da parte del Collegio de libertate e determinante la necessità di annullamento dell'ordinanza cautelare" e, quindi, annulla tale ordinanza e provvede all'immediata scarcerazione.
In conclusione l'indagato, libero come un fringuello, naturalmente fa subito perdere le sue tracce, con un grato pensiero a quel giudice così laconico e frettoloso.

Giochiamo a tamburello con il processo.

Un alto funzionario di un grosso Comune viene denunciato per falso ideologico nel 1999.
Dopo alcuni mesi di indagini, il P.M. chiedeva l'archiviazione del procedimento, perchè non erano emersi fatti penalmente rilevanti, "quanto meno sotto il profilo soggettivo".
Proposta opposizione dalla parte offesa, il G.I.P. "disponeva l'espletamento di ulteriori indagini".
Nel 2001, espletate le ulteriori indagini, il P.M. formulava altra richiesta di archiviazione perché "non vi è materiale per sostenersi sussistenza di alcun fatto penalmente rilevante".
Il G.I.P., per la seconda volta, a seguito di nuova opposizione respingeva la richiesta, ordinando il compimento di ulteriore attività di indagine.
Nel 2002, il P.M. reiterava la richiesta di archiviazione ritenendo che "le indagini continuano a confermare l'insostenibilità in giudizio di accuse di falso ...".
Terza opposizione della p.o. ed, a questo punto, il G.I.P. ordinava al P.M. "la formulazione dell'imputazione relativamente al reato per cui oggi si procede".
Passavano ben due anni da tale ordine, senza che fossero state compiute altre indagini, e, finalmente, nel marzo 2004, il P.M. avanzava richiesta di rinvio a giudizio, che però veniva dichiarata nulla dal G.I.P. per mancato avviso ex art. 415 bis c.p.p., con restituzione degli atti al P.M., il quale, chissà perché, non chiedeva più il rinvio a giudizio, ma nuovamente (maggio 2004) l'archiviazione perché "non appare in alcun modo prevedibile una condanna per l'ipotesi delittuosa indicata dal G.I.P.".
Ennesima opposizione della p.o. e dichiarazione di inammissibilità della richiesta del P.M. da parte del G.I.P., che nuovamente gli ordinava di formulare l'imputazione relativamente al reato ipotizzato originariamente.
Passati quasi altri due anni senza altre indagini, nel marzo 2006, finalmente il P.M. formulava l'imputazione e chiedeva il giudizio.
Ma, sorpresa delle sorprese, ecco la decisione del G.I.P. come si ricava da questa singolare sentenza.
"Gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio nei confronti dell'odierno imputato in ordine al reato ascrittogli, come ripetutamente rilevato dal P.M. titolare delle indagini nelle quattro richieste di archiviazione compiutamente - seppur succintamente - motivate.
Infatti, dall'attenta valutazione della documentazione riguardante ...., non emergono elementi deponenti per la sussistenza del reato contestato e che rendano utile l'esercizio dell'azione penale in dibattimento".
Sulla base di tale ragionamento, "si impone nei confronti dell'odierno imputato la pronuncia di sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p. perché il fatto non sussiste".
Il tamburello è durato sette anni, ma credo che nessuno si sia divertito.

Oblazione per un delitto

Si tratta di un caso di occupazione abusiva di un immobile. Il reato contestato è previsto dall'art. 633 C.P. ed è pacificamente un delitto.
Il difensore dell'imputato chiede di essere ammesso all'oblazione (che è un modo di estinzione delle sole contravvenzioni) ed ecco la sentenza (nel contenuto della quale non si dà atto di parere, positivo o negativo del P.M.):
"Con ordinanza del .... il G.I.P. ammetteva l'imputato all'oblazione determinando in ....Euro la somma da corrispondere, oltre al pagamento delle spese processuali.
L'imputato ha regolarmente provveduto al pagamento della somma dovuta entro il termine impostogli.
Va, pertanto, pronunciata sentenza di non doversi procedere, ex art. 129 c.p.p. per essere il reato estinto a mente del disposto dell'art. 162 bis u.c. (si intende del c.p.p., che riguarda solo le contravvenzioni n.d.r.)".
Per il lettore non giurista è bene ricordare che la distinzione tra delitti e contravvenzioni è una delle prime cose che si studiano al corso di diritto penale, così come è principio elementare che l'oblazione è un mezzo per definire solo le contravvenzioni.
La sentenza è opera di magistrato togato e sempre valutato molto positivamente nella progressione in carriera.

lunedì 28 gennaio 2008

Attenti al barista!

Questa volta la sentenza è proprio della Suprema Corte di Cassazione.
Il caso è quello di un tizio, il quale, avendo sete, entra in un bar e chiede un bicchiere di acqua minerale.
Il barista prende dal bancone una bottiglia con l'etichetta di una notissima acqua minerale e ne riempie il bicchiere, ma, al primo sorso, il cliente si accorge che qualcosa in quell'acqua non va e, da immediate verifiche, si scopre che il liquido versato era detersivo per lavastoviglie, qualificato pacificamente in sentenza come tossico e nocivo.
Contestato al barista il reato di commercio di sostanze alimetari contraffatte o adulterate, nell'ipotesi colposa prevista dall'art. 452 C.P. e dopo varie vicende processuali, finalmente il caso approda in Cassazione, dove viene stabilito che né il reato originariamente contestato né altre ipotesi di adulterazione o contraffazione di merci sussistono, con la motivazione che segue:
"Nella condotta del gestore di un bar, che abbia somministrato per errore a un cliente, che aveva chiesto un bicchiere di acqua minerale, del liquido per lavastoviglie, tossico e nocivo, contenuto in una bottiglia recante all'esterno l'etichetta di una nota acqua minerale e posta sul bancone di mescita, non è configurabile alcuna delle ipotesi delittuose previste dagli artt. 439,440,441,442,444 cod. pen. - delitti di comune pericolo mediante frode -. Tali fattispecie criminose si riferiscono invero ad un'attività di avvelenamento, adulterazione, contraffazione e messa in commercio di sostanze alimentari o di cose destinate al commercio, in modo pericoloso alla salute pubblica, ma non già all'ipotesi di somministrazione di una sostanza, pur se nociva per la salute umana, ma non destinata all'alimentazione e, senza alcuna opera di avvelenamento, adulterazione o contraffazione, confusa per mero errore di fatto con una sostanza alimentare".
Che è come dire: se ti cade qualche goccia di liquido per lavastoviglie nell'acqua minerale. allora sei responsabile per colpa di adulterazione di sostanze alimentari; ma se, invece, servi liquido per lavastoviglie puro, non commetti nessuno dei reati sopra indicati.
Devi solo sperare che il cliente non muoia, perché allora sarebbe omicidio colposo.

giovedì 17 gennaio 2008

Coerenza politica.

Dal discorso del Ministro della Giustizia Mastella, non letto alla Camera per le note vicende, ma pubblicato sul sito del Ministero del quale era fino ad ieri titolare, traggo un piccolo brano che, dopo il suo discorso alternativo, quello in cui annunciava le dimissioni, spicca di luce particolare:
"è assolutamente condivisibile che i detentori di responsabilità politiche non debbano sottrarsi ad un effettivo controllo di legalità del loro operato".
Ogni commento è superfluo.

lunedì 7 gennaio 2008

Prostata salvifica

Tizio deve rispondere del reato previsto dall'art. 609 quinquis p.c. perché mostrava il proprio pene ad una bambina di quattro anni al fine di farla assistere a tale esibizione.
Il fatto avveniva al centro di una popolosa cittadina, durante l'ora di punta del tardo pomeriggio, in una strada affollata. Il padre della bambina accosta l'auto al marciapiede perché si è ricordato di dover comprare le sigarette. Lascia in auto la moglie, seduta sul sedile posteriore, e la bambina di 4 anni, seduta su quello anteriore, con il finestrino aperto perché fa caldo.
All'improvviso sul marcfiapiede al quale è accostata l'auto, un uomo si sbottona i pantaloni ed esibisce il suo pene davanti al finestrino in cui si trova la piccola. Questa, alla vista, urla spaventata richiamando l'attenzione della madre, che, a sua volta, vedendo il marito ritornare, strilla e racconta l'accaduto.
Il responsabile della edificante scenetta viene identificato e fermato.
Rinviato al giudizio del Tribunale per il reato sopra indicato, si difende dicendo che soffre di prostata ed aveva urgente necessità di mingere.
Il giudice svolge questa edificante motivazione:
"L'uomo, pur trovandosi in pieno centro abitato ed in particolare in una delle più trafficate vie della città, a causa di una patologia alla prostata documentata dalla cartella clinica prodotta, non sarebbe riuscito a trattenersi dalla necessità di urinare." e lo assolve.
Del tutto inutile, per questo giudice, verificare perché poi l'imputato non abbia urinato, ma sia riuscito a scappare per non farsi prendere dal padre della bambina giustamente inferocito e perché, visto che aveva questo bisogno impellente, non abbia rivolto il suo pene verso il muro, preferendo, invece, esibirlo davanti al finestrino dove si trovava la piccolina.

I morti perdonano tutti

Un originale giudice scrive:
"E' risultato che la persona offesa Caio è deceduto, cosicché tale evento può equipararsi ai fini della procedibilità del reato ad una remissione extraprocessuale implicita, non potendosi ascrivere all'imputato la sopravvenuta impossibilità materiale di poter beneficiare o darsi luogo ad estinzione consensuale del reato.
Simile condizione implica altresì accettazione tacita in presenza di carenza di interesse dimostrata dall'imputato alla prosecuzione del processo."
Ignora questo giudice che l'originario testo dsell'art. 156 c.p. prevedeva che "il diritto di remissione si estingue con la morte della persona offesa del reato" e che, solo dopo il 1975, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 151/75 è stato permesso agli eredi, qualora siano tutti consenzienti, una eventuale remissione espressa (mai tacita) della querela proposta dal de cuius.
Insomma la regola, in caso di decesso del querelante è, all'opposto di quanto ritenuto da questo giudice, che, con la morte del querelante, la querela non può essere rimessa, né tacitamente, né espressamente, salvo che tutti gli eredi, d'accordo, decidano di rimetterela, cosa che, nel caso in questione, non è stata neppure ipotizzata dall'originale giudice.

Il giudice falegname

Dovendo giudicare un imprenditore, imputato di lesioni colpose per incidente sul lavoro che aveva provocato ad un dipendente la perdita di un dito a causa dell'assenza di uno spingitoio a corredo di una sega circolare, il giudice motiva il suo dubbio sulla sussistenza del rapporto causale tra l'omissione dell'imprenditore e l'incidente in questa forma:
"E' noto anche ai più sprovveduti degli operai (e al rappresentante dell'ufficio che si diletta in lavori di falegnameria) che il c.d. spingitoio non è altro che un semplice pezzetto di legno con cui si spinge appuhto il legno in lavorazione di ridotte dimensioni.
Tali pezzetti di legno si rinvengono a iosa, come del resto ha rilevato l'infortunato, tra gli scarti delle lavorazioni precedenti, .... pertanto non può non concludersi per l'insussistenza di alcun nesso di causa tra la eventuale non disponibilità di uno spingitoio specificatamente a ciò preposto (che non è dissimile da un ritaglio di legno) e l'avvenuta lesione.".
Il giudice sorvola serenamente sul fatto che, comunque, la lesione (cioè il taglio del dito) c'è stata e non verifica se, per esempio, in quel particolare laboratorio di falegnameria non ci fosse alcuno spingitoio, nè appositamente destinato all'uopo, nè altrimenti utilizzabile da precedenti lavorazioni. E assolve l'imprenditore.

Se l'imputato è africano.

Processo a carico del solito senegalese imputato di avere detenuto per la vendita una grande quantità di opere contraffatte e ritenuto colpevole del reato ascrittogli.
Ecco il ragionamento del giudice quando deve determinare la pena:
"L'aggravante del grande numero di opere poste in vendita e la recidiva vanno dichiarate subvalenti rispetto all'ipotesi lieve per la ricettazione ed alle attenuanti generiche, che si concedono perché l'imputato è africano e l'Africa è povera"

Se il processo è indiziario meglio infliggere solo il minimo della pena.

Si tratta di un processo indiziario a carico di imputati per reati molto gravi, dei quali tutti sono riconosciuti colpevoli.
Quando deve stabilire l'entità della pena da infliggere, ecco la motivazione del giudice:
"La spiccata capacità a delinquere dei condannati, quale emerge dai loro precedenti penali è senz'altro ostativa alla concessione delle attenuanti generiche e solo la natura indiziaria del processo consente la quantificazione della pena nel minimo".
Senza commenti!

La mancanza di querela causa di estinzione del reato

Si tratta di un furto di oggetti lasciati in auto dal proprietario che era sceso senza chiudere la portiera a chiave.
P.M. e Giudice, accertato che il ladro non aveva compiuto alcun atto di violenza sull'auto e che gli oggetti in essa contenuti non possono considerarsi cose esposte alla pubblica fede, correttamente ritenevano il reato contestato da qualificare come furto semplice ai sensi dell'art. 624 c.p., ma, a questo punto, ecco la sorpresa:
"La mancanza di ogni idonea querela in ordine al reato di furto semplice determina, pertanto, conformemente alle conclusioni del medesimo p.m., la declaratoria di n.d.p. in ordine al reato, essendo lo stesso estinto per difetto di querela."
L'idea che senza querela non avrebbe potuto essere mai iniziata l'azione penale per questo reato non ha sfiorato le menti di questi magistrati.

Esuberanza giovanile

Un minorenne deve rispondere dei reati di violenza privata e lesioni perché, tappando la bocca e strattonando un'operatrice scolastica, le impediva di chiamare e raggiungere un professore. L'operatrice vittima della violenza aveva subito anche lesioni personali.
Il GUP collegiale minorile dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputato per immaturità sulla base di questa motivazione:
L'imputato "ha agito in un contesto emotivamente coinvolgente senza rendersi conto dell'antigiuridicità del fatto e non riuscendo, attesa la giovane età, a calibrare la propria forza fisica".
Avviso agli operatori scolastici: attenti ai ragazzoni tutti muscoli; sono immaturi e non sanno calibrare la loro forza fisica!!!

Ogni colpo una tacca.

Secondo questo giudice l'accoltellatore del rivale risponde di tanti reati di lesioni volontarie aggravate per quanti colpi abbia sferrato.
La sentenza riguarda un soggetto imputato originariamente di tentato omicidio del rivale, al quale aveva inferto diverse coltellate.
All'esito delle indagini preliminari, il P.M., sulla base della consulenza medica che aveva ritenuto tutte le ferite superficiali ed in punti non vitali del corpo, riformula l'imputazione in quella di lesioni volontarie aggravate ed accetta la proposta di patteggiamento offerto dall'imputato.
Nella motivazione della sentenza, tuttavia, il giudice ritiene di dovere precisare che la pena concordato non viene determinata per l'unico reato così come contestato, ma che, "benchè non espressamente indicata, deve ritenersi altresì contestata la pluralità delle lesioni, costituenti esse stesse singole ipotesi di reato che dunque vanno riunite nel vincolo della continuazione, essendo evidente l'unicità del disegno criminoso. Pena equa, tenuto conto della diminuzione per il rito prescelto, stimasi quella di anni 1 e mesi 4 di reclusione, pena che deve comunque, al di là del calcolo come proposto dalle parti, ritenersi corretta in relazione ai limiti edittali (p.b. a. 1 m.10 di reclusione + 81 cpv. = a.2 - 444 c.p.p.)"
Pensate se una ferita fosse stata mortale e le altre superficiali, forse avremmo avuto una sentenza di condanna per i due reati di omicidio e lesioni personali uniti dalla continuazione.

Il numero 69 non si addice alle brave ragazze

Sempre più spesso si leggono nelle sentenze redatte da giovani donne giudici calcoli della pena stravaganti, dovuti quasi certamente all'ignoranza assoluta dell'art. 69 C.P. e della pluriennale interpretazione di questa norma da parte della Cassazione.
Cito, a titolo di esempio due sentenze, redatte dalla stessa giudice a distanza di sei anni l'una dall'altra, in cui viene esposto lo stesso ragionamente e commesso lo stesso errore, stabilendo una pena che sostanzialmente potrebbe essere quella giusta, ma che, per la mancanza delle nozioni sul bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti, giunge a conclusioni erronee.
Si tratta di due sentenze entrambe per furto pluriaggravato nelle quali viene affermata la responsabilità dei rispettivi imputati.
La giudice, leggendo l'art. 625 c.p. così ragiona nella prima:
"pena base anni tre di reclusione + multa, diminuita in virtù del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche da ritenere prevalenti sulle contestata aggravanti, ...... mesi otto di reclusione + multa".
Nella seconda: "pena base anni tre di reclusione + multa, diminuita in virtù del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate ahgggravanti, .... sino alla pena di mesi sei di reclusione + multa"
Si tratta, sia nel caso di prevalenza che in quello di equivalenza delle concesse attenuanti generiche, di un evidente errore per eccessiva diminuzione di pena ex art. 62 bis c.p. visto che vuol partire da tre anni di pena base.
Se, invece, la giudice avesse letto l'art. 69 c.p., avrebbe dovuto prima di tutto verificare il bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti e poi, visto che riteneva prevalenti o equivalenti queste ultime, determinare la pena base, nel primo caso, magari in misura di un solo anno, sulla quale operare la riduzione di un terzo (massimo consentito) e giungere così agli otto mesi voluti, e, nel secondo caso,determinarla direttamente in quella di sei mesi.
Sarà che alle brave ragazze l'idea stessa del numero 69 ripugni?

Il dubbio del giudice

Tizio risponde del fatto di avere portato in luogo pubblico, insieme ad altre persone, una sbarra di ferro, con la quale sono state provocate fratture alle gambe di un terzo (non risponde invece di concorso in lesioni volontarie aggravate chissà perché).
Al dibattimento l'aggredito, che aveva in precedenza riconosciuto in fotografia Tizio come uno di quelli che partecipava all'agressione, non lo riconosce con certezza.
In questa situazione il giudice, emettendo una sentenza con motivazione contestuale, per prima cosa dichiara:
"Dall'espletata istruttoria dibattimentale non sono emersi sufficienti elementi di prova in ordine alla sussistenza del reato contestato all'imputato".
Proseguendo nel ragionamento e dato atto del contrasto tra il positivo riconoscimento fotografico e quello negativo al dibattimento, trae le seguenti conclusioni:
"Stante il mancato riconoscimento dell'imputato da parte della persona offesa ..... consegue l'invincibilità del dubbio sulla effettiva partecipazione dell'imputato all'episodio oggetto del processo e la sua conseguente assoluzione ex art. 530 co. 2 c.p.p. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto.
P.Q.M.
Visto l'art. 530 co.2 c.p.p. assolve Tizio dal reato ascrittogli in ribrica perché il fatto non sussiste."
A me pare che il giudice non aveva solo l'invincibile dubbio sulla responsabilità, ma anche quello sulla formula da usare. Insomma, dal dispositivo e dalla prima parte della motivazione pare che il giudice dubitasse anche del'esistenza della spranga di ferro; ma dall'esposizione dei fatti e dalle conclusioni che ne trae alla fine di essa, sembrerebbe invece che volesse ritenere l'imputato estraneo al fatto, che però riteneva essere davvero accaduto ad opera di terzi.

domenica 6 gennaio 2008

La legittima difesa fa sparire anche il fatto.

In questo caso il giudice, trattando un caso di lesioni personali guarite oltre i quaranta giorni, dopo avere accertato che in effetti la parte offesa era uscita malconcia e con varie fratture dalla lite con l'imputato, con articolata motivazione sostiene che l'imputato ha agito in stato di legittima difesa e, dopo avere scritto in motivazione testualmente: "Ritiene il Tribunale che la condotta tenuta dall'imputato sia scriminata dalla sussistenza della causa di giustificazione prevista dall'art. 52 c.p., di cui ricorrono i presupposti", giunge a queste stupefacenti conclusioni:
"Le considerazioni sopra svolte conducono ad una dichiarazione di insussistenza del fatto ascritto all'imputato, con conseguente assoluzione dello stesso.
P.Q.M.
Assolve Tizio dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste.
Giorni 30 per la motivazione ." (anche questo evidentemente era un caso complesso).

Della Suprema Corte ce ne infischiamo.

Nel lontano 2002 prima il P.M. e poi il giudice avevano accettato il patteggiamento proposto da due imputati alle seguenti condizioni: anni due di reclusione ed € 200,00 di multa ciascuno e sospensione della pena per entrambi.
Naturalmente la sentenza era errata perché, dovendosi aggiungere la multa al limite massimo dei due anni di reclusione, allora non poteva concedersi sospensione condizionale.
Infatti, su ricorso del p.g., la Cassazione annulla tale sentenza senza rinvio spiegando che non poteva concedersi la sospensione condizionale per tali motivi e trasmette gli atti di nuovo allo stesso Tribunale per nuovo giudizio.
Nel frattempo gli imputati si erano resi irreperibili, un altro patteggiamento era impossibile, si doveva celebrare un giudizio ordinario. Che scocciatura! Ma i due, PM e giudice, hanno grande fantasia e così decidono che la vecchia proposta di patteggiamento deve rimanere ferma e valida ed, anzi deve essere accolta così come originariamente formulata.
E alla Cassazione così il giudice risponde:
"Rilevato che le ragioni che hanno determinato l'annullamento senza rinvio della sentenza emessa da questo giudice (in realtà era un altro giudice dello stesso Tribunale n.d.r.) in data ... 2002 (violazione dell'art. 163 c.p. per superamento del limite di pena previsto dalla norma per concessione del beneficio) sono venute meno a seguito della modifica legislativa introdotta dall'art. 1, l. 2 agosto 2004 n. 205;
che, pertanto, entrambi gli imputati - incensurati - possono beneficiare della sospensione condizionale della pena loro inflitta (anni due di reclusione ed € 200,00 di multa), stante l'innalzamento del summenzionato limite ad anni cinque" ............
P.Q.M.
applica ai due imputati la pena di anni due di reclusione ed € 200,00 di multa ....... (segue calcolo della pena)....
Pena sospesa
Giorni trenta per la motivazione." (Si sa che una sentenza di patteggiamento è abbastanza complessa).
Con un colpo solo questi magistrati (PM e giudice) hanno dimostrato di ignorare quello che aveva scritto la Cassazione; di confondere i limiti del patteggiamento (cosiddetto allargato) con quelli per la sospensione della pena ed, infine, di ignorare che la novella permetteva di sospendere condizionalmente soltanto la pena detentiva nei limiti dei due anni, ma non anche quella pecuniaria, con l'ulteriore conseguenza che, comunque, anche a volere ritenere valida la proposta di patteggiamento a suo tempo formulata, essa non poteva accogliersi perché la legge non permetteva di sospendere tutta la pena patteggiata.
Ma che soddisfazione mandare a quel paese quei rimbambiti della Cassazione che li costringono a rimettere mano ad un vecchio processo eliminato!

I raggiri di Cupido ed i misteri del giudice.

Tizio si ritrova rinviato a giudizio con questo divertente capo di imputazione, frutto della tenacia indagatoria di un solerte P.M.:
"artt.81 cpv. e 640 c.p. per essersi procurato in tempi diversi ed in esdcuzione del medesimo disegno criminoso in ingiusto profitto inducendo Caia a consegnargli assegno bancari dell'importo complessivo di € (una discreta sommetta n.d.r.) con artifizi e raggiri consistiti nel chiederle un prestito promettendole una rapida restituzione, approfittando del loro legame sentimentale e simulando di essere in procinto di assumere un nuovo incarico lavorativo".
Al dibattimento Caia si costituisce parte civile, ammette che al tempo del commesso reato era fidanzata con Tizio, che gli aveva concesso un prestito perché gli voleva bene, ma che poi si era accorta che quello era fidanzato con un'altra.
Il giudice, allora, decide di assolverlo perché il fatto non sussiste con questa motivazione:
"E' forte nel giudicante la consapevolezza che l'unico 'raggiro' ipotizzabile in questo caso sia stato quello inesorabile ed antico architettato da Cupido.
Tale raggiro non ha rilevanza per il reato in esame.
Si impone allora l'assoluzione per insussistenza del fatto, seppure ai sensi del II comma dell'art. 530 C.P.P."
Non è dato di sapere da quale dubbio sia scaturita quell'applicazione del secondo comma dell'art. 530 c.p.p.. Se qualcuno è in grado di formulare qualche ipotesi alternativa può farsi avanti.
Peraltro il giudice ignora sovranamente il disposto dell'art. 542 c.p.p. che, in un caso come questo di reato procedibile a querela ed in presenza di assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste, impone la condanna del querelante al pagamento delle spese processuali e di quelle sopportate dall'imputato, limitandosi a questo semplice dispositivo:
"P.Q.M.
visto l'art. 530 comma II C.P.P. assolve Tizio perché il fatto non sussiste.".

La matematica è un'opinione

Tizio deve rispondere di alcune contravvenzioni ed il giudice lo ritiene responsabile di tutte quelle che gli sono state contestate. Poiché l'imputato ha scelto il rito abbreviato, gli spetta la riduzione di un terzo della pena determinata in continuazione tra le varie contravvenzioni.
Ecco il calcolo del giudice:
"Si stima equo determinare la pena, riunite le diverse fattiscpecie sotto il vincolo della continuazione e riconosciuta la diminuente per il rito, in mesi tre di arresto (P.B. mesi due di arresto; aumentata ex art.81 c.p. a mesi tre di arresto; ridotta come sopra ex art. 438 e ss. c.p.p.).
P.Q.M.
Dichiara Tizio colpevole dei reati ascrittigli e, per lp'effetto, riconosciuta la continuazione tra le diverse ipotesi ed applicata la diminuente per il rito scelto, lo condanna alla pena di mesi tre (3 - 1/3 fa 3 per questo giudice n.d.r.) di arresto."
Il calcolo della pena era tanto complicato che il giudice ha avuto bisogno di ricorrere a quella norma che, per i processi più complessi, permette al giudice di depositare la motivazione entro novanta giorni.

Idee confuse.

Tizio, accusato di avere dichiarato con l'autocertificazione che la moglie nell'ultimo anno non aveva lavorato, si difende dicendo che in effetti la moglie in quell'anno era rimasta disoccupata.
Il giudice del dibattimento dà atto che effettivamente la dichiarazione non è falsa perché non risulta che moglie abbia mai svolto attività lavorativa nell'anno in questione e, dopo la discussione orale scrive la sentenza così motivata:
"Il dubbio circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato giustifica la pronuncia ai sensi dell'art. 425 - comma 3^ - c.p.p.
Visto l'art. 425 - comma 3^ - c.p.p.
P.Q.M.
dichiara non luogo a procedere nei confronti di Tizio perché il fatto non sussiste.".

mercoledì 2 gennaio 2008

Il Bibunale

Si, succede anche questo: un Tribunale che, a causa delle ferie di un giudice, non riesce a trovare il suo terzo componente ed apre l'udienza composto soltanto da un Presidente ed un giudice.
In questa strana formazione chiama un processo, molto complesso, con imputazioni gravissime, anche di carattere associativo, accerta che nessuno dei difensori è presente (anche perché la cancelleria, in modo informale e per telefono, aveva già preannunciato che l'udienza sarebbe stata rinviata), nomina per tutti gli imputati un difensore di ufficio (peraltro iscritto a foro di un altro distretto), e lo nomina sostituto processuale di tutti i difensori, dimenticando che in molti casi ci sono contrasti evidenti tra le tesi difensive di alcuni imputati rispetto a quelle di altri.
Ma non basta: questo strano ircocervo dichiara l'assenza (non la contumacia) degli imputati assenti e poi rinvia ad altra data il prosieguo del dibattimento, avvertendo che non deve essere dato avviso né agli imputati assenti né ai difensori (anche essi assenti), visto che, per ordine del "Bibunale" essi devono essere considerati tutti presenti.
Naturalmente. quando alla successiva udienza (questa volta davanti ad un Tribunale composto di tre giudici), alcuni dei difensori presenti ritengono che l'assenza di molti imputati e difensori dipende dalla nullità della precedente udienza, il Tribunale difende la sua decisione e dichiara che è tutto regolare.
Il resto (cioè la decisione della Corte d'Appello) alla prossima puntata.